domenica 2 gennaio 2011

Viagg-IO

C’è un uomo dall’eta indefinibile seduto a pochi metri di me. Sembra adulto ma ha l’aria più vissuta della sua età, le sue mani sono curate, ma trasudano una stanchezza che non pare di questo mondo. Poche ore fa ho dato un bacio sulla guancia sinistra di mia madre e due baci a mio padre. Li ho salutati divorando in un boccone solo il momento, cercando di non girarmi più e di tenere la schiena dritta per sembrare più grande. La freddezza della panchina del terminal penetra i miei pantaloni sottili spostando la mia percezione di qualche centimetro più in alto di dove io sia. Come una mano vicina ad un fuoco ondeggio tra il troppo caldo e la tentazione, sollevando talvolta i piedi e provando a sentirmi già un po’ per aria. Si avvicina il momento del volo, mentre nel momento del viaggio sono già immerso da giorni, da quando ho telefonato a mio zio un istante prima che fosse lui a farlo, e mi sono sentito dire che il mio passaporto era appena arrivato da roma col visto. Da quel momento tutto è diventato vero e piano piano la realtà ha cominciato a sbiadirsi, i miei occhi hanno cominciato a vedere diversamente. Di tutti i miei mille amici non ho tenuto che a salutarne meno di dieci e a tutti gli altri ho lasciato un semplice messaggio in cui dievo che sarei stato via per un generico po’. Il mio viaggio non sarà lungo e non avrei la maturità che ritengo di avere, se gli affidassi speranze di stravolgimento della mia vita attuale. Si va in vacanza per riposare e divertirsi. Io non parto per una vacanza ma non ho obiettivi molto diversi. Nelle mani del mio vicino di posto vedo occhi di tante persone che riconoscenti anticipano il sorriso di centinaia di labbra. Quelle mani sono diverse perché bagnate di qualcosa di diverso, di riconoscenza forse, di umiltà sicuramente. Ma c’è dell’altro e io indagherò. Ma al momento sono troppo preso da me stesso, dalla speranza di poter trovare ciò che cerco. Nel divertimento del mio spirito cercherò di ritrovare la gioia di essere vivo, di poter essere strumento nelle mani dell’artista che ho dentro e che voglio far emergere. Ognuno di noi ha un paesaggio al suo interno disegnato dal nostro artista interiore e inconscio, ma solo in pochi riescono a fondersi con questa parte generatrice e fare della propria vita un’opera d’arte. Ma parto per questo, per far riposare la maschera che il mio ruolo sociale qui in Italia mi impone, per smettere di essere figlio, amico, receptionist e qualsiasi altra cosa, e cercare di togliermi la pelle. Eppure anche se può sembrare un controsenso non ho paura, non ho paura di diventare più fragile ma, anzi, credo che sarò più forte, perché che io lo voglia ammettere o meno so che sarò più a mio agio di quanto io non sappia e possa essere in una realtà in cui a tanti sembro tremendamente inserito. Parto quindi alla ricerca di divertimento e riposo, nel senso di gioia e possibilità di deporre le armi. Sul letto di Padova ho lasciato un mio abito grigio con infilata una camicia e la cravatta che ci avrei abbinato. Nel taschino interno ho messo dei soldi corrispondenti al valore di quell’uomo che da lì è momentaneamente fuggito. Da qui si vede il Mondo anche se è solo Venezia. Mi alzo e cammino piegato e con le mani in tasca fino al lastrone di vetro dal quale si vedono gli aerei. La mia malinconia mi sembra perfino eccessiva ma sto salutando la parte di me che non sarà mai più come prima e non è come togliere i denti del giudizio, ma è più simile ad una perdita di ingenuità, una sorta di deflagrazione. Poso la schiena su una colonna e incrocio lo sguardo di colui che prima sedeva vicino a me. Lui mi guarda e abbozzando un sorriso mi si rivolge con tono dolce: “prima volta che parti per l’africa?” “Si vede vero?” rispondo io, con la sensazione che chi ho davanti di me sappia già tutto. “Ognuno cerca qualcosa di diverso in Africa, una parte di sua Africa, qualcosa da tatuarsi magari al ritorno.” è gentile nel rivolgersi a me, ma cresce in me una stupida voglia di non mostrarmi come un bambino. “Le confesso che io la mia africa la cerco dentro di me, che io il viaggio lo faccio per farmi trovare più che per cercare.” non faccio nemmeno in tempo a sentirmi fiero della mia risposta non banale, che i miei occhi scorrono ai lati delle orbite richiamati da mio zio. “Forza Mattia, hanno aperto le porte, c’è l’imbarco.” Mi giro e ovviamente quell’uomo non c’è più come nel peggiore dei film americani, ma sul suo posto vuoto aleggia il profumo delle ultime parole che il mio cuore gli aveva assegnato da pronunciare. “buona fortuna” aveva detto mio nonno. E ora vado.