domenica 22 maggio 2011

on line

"Ma guarda che schifo, senti che puzza di polvere"
"Stai calmo"
"Calmo un cazzo, fa schifo qui, non è serio. Io me ne vado."
"No, perfavore, me l'hai promesso. Ho preso 8 in storia"
"Va bene, ma se non arriva tra 5 minuti io me e vado e ti aspetto in macchina. Ma che stronzata è questa? Cosa centro io?"
"Papà lo sai che se dipendesse da me non ti farei stare qui. ma niente più ora dipende da me e sono costretto a farlo"
"Va bene va bene ma ho detto 5 minuti. Ne è già passato uno."
Mio padre odiava guardare in faccia la realtà, era impossibile quando ci si metteva, ma quella volta mi aveva promesso che mi avrebbe aiutato. La mia vita era un mezzo disastro, ma poi invecchiando scopri che a 16 anni che la vita possa essere un disastro ci può anche stare, il punto è che tutto quello che ti circonda a quell'età ha un'aria solenne, importante. Ti lascia la ragazza, ok nessuno ti amerà mai più, prendi 4 in italiano, ok non scriverai mai un libro. Insomma a 16 anni parole come "mai" e "più" sono martelli che torturano la tua serenità. Certo la mia situazione era una bella merda comunque, ma avevo deciso che dovevo fare qualcosa per cambiarla, e convincere mio padre a incontrare di nuovo mia madre mi sembrava la partenza necessaria. Ormai era da 1 anno che si erano lasciati, ma non c'era ancora ufficialità al divorzio perchè, dal maledetto giorno di quella litigata, non si erano più voluti vedere o parlare. Mio padre era un operaio, una persona per bene ma incazzata col mondo. Mia madre era una psicologa specializzata nell'assistenza dei ragazzi delle scuole medie.
"un minuto, un altro minuto al massimo"
Io credo che ne fossero passati almeno 7, ma mio padre cominciava a desiderare di vederla ormai, e più passava il tempo più la sua insofferenza puzzava di spettacolo teatrale. Avevo preso un appuntamento nel suo studio dando un falso nome, non volevo che mia madre arrivasse pronta all'incontro, era troppo intelligente per mio padre, con la giusta preparazione l'avrebbe potuto distruggere, e no, questo quel pover uomo incazzato non lo meritava proprio.
"Ok basta. Andiamo via cazzo."
"No, eccola!"
La porta si aprì ed etrò una donna distratta, che guardava per terra portando in mano fogli pesanti. Aveva una gonna nera fin sotto al ginocchio, una camicia bordeaux e le calze scure. Non avevo mai visto mia madre a lavoro, non sembrava nemmeno lei con i capelli raccolti.
"Buongiorno"
"Buongiorno"
Sbigottita mia madre sistemò gli occhiali e riconobbe mio padre.
"Buongiorno" ripetè imbarazzata come se non avesse già salutato.
"Buongiorno un cazzo!" esclamò mio padre. Ma il suo sguardo era troppo ferito perchè potesse suonare d'insulto la sua frase.
"Ciao mamma, scusa, è colpa mia. Devo parlarvi, vi prego. Sediamoci, vi prego."
"Io sto in piedi!" esclamò mio padre. Mia madre invece sussurò che stava lavorando e non poteva fermarsi ma io le risposi che l'appuntamento dalle 16 alle 17 l'avevo preso io e che quindi per un'ora lei non aveva niente da fare.
Mia madre si sedette sospirando come se stesse per partire per la guerra. Avvicinò a se il posacenere e si accese una sigaretta.
"Lo sai che questo non è il modo..." La fermai prima che potesse continuare a parlare.
"Chiedo scusa ad entrambi ma se non vi parlo ora forse domani sarà già troppo tardi."
A mio padre tremava il ginocchio. Una goccia di sudore scendeva ogni 10 secondi dalla sua fronte, colando al lato del viso fino ad infilarsi sotto alla camicia nera.
Mi resi conto in quel momento, che dopo tanto tempo si era rasato il viso e pensai che doveva essere per desiderio di rivincita.
Io credo dobbiate parlare, ma non so cosa dire. Posso però mostrarvi una cosa che in fin dei conti è il motivo per cui siamo qui ora. Estrassi dallo zaino un disegno e lo misi sulla scrivania di mia madre. A dire il vero non era un vero e proprio disegno, ma un foglio bianco con una linea tracciata al centro che lo divideva a metà.
"Sono fermo qui" dissi loro. "E' da giorni che tutta la mia vita è attraversata da linee. Mi perseguitano, dividono ogni cosa che io veda. L'altro giorno ho pianto perchè sentivo che le linee stavano massacrando la mia testa, stavano urlando dietro di me. Sento che devo spaccare qualcosa in continuazione, distruggo tutto dividendolo a metà e poi ancora a metà. Ora, io credo dipenda da voi. Sta a voi decidere cosa farne di me, perchè la prossima cosa che distruggerò sento che sarà me stesso."
Mia madre rimase in silenzio e portò la sua mano sulla mia dicendomi di venire più vicino con la sedia. Mio padre decise invece di sedersi sul divano polveroso, spofondò in quel divano e della polvere non gli importava più.
"Io non vi chiedo niente ma ho creato una stanza di carta bianca e vi ho messo una matita in mano. Ora sta a voi decidere se tracciare una linea ma sto finendo le forze, e sappiate che dovrete assumervene la responsabilità se lo farete."
Mia padre non ce la poteva fare a parlare, era proprio impossibile che da lui venisse fuori qualcosa in quel momento. Mia madre lo sapeva e sapeva di avere il microfono puntato. Toccava a lei, come sempre quando c'era da parlare, come mai quando c'era da agire concretamente.
"Credo che ti dobbiamo delle scuse perchè quella riga è piena di sangue. Bagnata di dolore. Credo che nessun figlio dovrebbe notare l'umanità dei genitori, almeno finchè questi sono in grado di non farsela addosso." Mio padre fissò il pavimento e poi sollevò gli occhi. Ora o mai più sembrava pensare. "Scusa, stronza. Però scusa." disse con voce tremante. Strinsi forte la mano di mia madre e lei scoppiò in un pianto di dignità e orgoglio.
I miei non tornarono mai insieme ma da quel giorno ripresi a vivere normalmente, ricominciai anche a disegnare cose che non fossero linee. Smisi di svegliarmi in lacrime nella notte. Non c'era stata una soluzione quel giorno, ma avevo alleggerito i miei genitori di un peso che portavano dentro. Credo che sia per questa ragione che mio padre poi riuscì a trovare una nuova compagna. Credo sia grazie a me che mia madre torno a sciogliersi i capelli. Non eravamo più quelli della foto in montagna che tenevo sempre sul comodino. Dopo quel giorno loro erano molto più giovani e io ero diventato molto più vecchio. Non ebbi mai più sedici anni e ancora oggi penso che me li meritassi invece, i miei sedici anni. Nel dubbio prendo mia moglie e mio figlio e scatto l'ennesima foto tutti insieme. Senza linee.

Mar, gherita

Questa è la storia di una bambina che non c'era più. Di uno spirito di profumo e vento che, cullandosi tra i capelli delle folle, alleggiava tra campi in fiore, cani che sorridono e luci di natale. Si chiamava Margherita l'origine di questo spirito, ed era una bambina vissuta tanti anni fa nell'antica Cartagine. La leggenda racconta di un cucciolo molto solo, ma educato in una famiglia importante, che aveva badato più ad istruirne la mente che a confortarne il cuore. Troppo grande per gli altri bambini e troppo piccola per i grandi, Margherita giocava con se stessa inventando giochi che i libri non potrebbero mai raccontare, giochi che farebbero balbettare il più abile scrittore. "Siete troppo piccini per capire" era la risposta che dava a chiunque chiedesse dei suoi giochi. Aveva capelli mori che correvano fino a bagnarne le spalle, ma ciò che più colpiva di lei erano gli occhioni con cui accoglieva il mondo nel cuore. Erano occhi che sembravano non sbattere mai le ciglia, da quanto scrutassero attenti tutto ciò che dal mondo richiedeva attenzione. E tutto richiedeva attenzione ad una persona così attenta, almeno quanto tutto sembrava inutile ad una persona che si professasse normale. Si potrebbe dire che la collana che portava sempre con sè fosse un ricordo di sua madre. Non che sua madre non fosse viva e presente, ma era come se per lei fosse morta tanti anni prima, visto che nella sua immaginazione aveva inventato una madre diversa, eterea, dolce e affettuosa. Il collegamento tra le due donne, quella reale e quella immaginaria, era quella collana di perle che portava sempre con sè. La piccola si divertiva ad imprigionare in ogni perla tutti gli stupori del giorno, e la notte quando andava a coricarsi, stringendo la collana, era convinta di far entrare tutto nei sogni e possedere la bellezza delle cose del mondo. Nelle sue perle c'erano i sorrisi degli anziani del porto, le voci del mercato, i colori della natura. Era proprio immersa in uno di questi giochi il giorno in cui, a 13 anni, scappò di casa alle 5 di mattina per accogliere in riva al mare l'arrivo della rosea alba estiva. Si sedette ad aspettare domandandosi se le perle sarebbero state sufficientemente grandi, per tutto lo spettacolo meraviglioso di cui aveva letto soltanto nei libri fino a quel giorno. Solo a dire la parola alba sorrideva impaziente. "Non hai freddo tesoro?" le disse una voce lontana all'improvviso. E, prima che ella potesse capire, si ritrovò in una conversazione meravigliosa con un interlocutore che non poteva vedere ma che la circondava. "Non avere paura, sono il mare, e sono qui per farti compagnia". "Ciao mare, sono felice che tu mi parli. avevo un po' paura a ritrovarmi così sola qui". La capacità dei bambini di arrendersi all'evidenza è l'unica porta d' ingresso per la magia. Perchè non è vero che il mare ancor oggi non ci chiami e chieda compagnia, ma siamo talmente abituati a non poterla considerare una cosa vera, che subito ridiamo di noi stessi o ci diamo dei pazzi. Per la piccola era invece normale, normale come immergere i piedi e sentire che l'acqua già calda aiutava a sentirsi più belli e felici. "Pensi di mettere tutto lo spettacolo che vedrai in una sola delle tue perle? credi veramente che ci stara tutto? " "Non lo so " rispose lei " ma in effetti credo di no. Ho portato una scatolina con me però! E' quella blu in cui ho trovato la collana... E' piccina ma spero basti. Tu ci vieni nelle mie perle?" "Il mare rimase in silenzio ripetendo solo il suo gentile fruscio di onde. " io ci verrei ma tu mi porteresti tra uomini orribili, che mi tratterebbero come la perla di una collana di una bambina a cui non crederebbero mai. ma tu invece non credi di meritare di più?" Ora era lei a tacere, e mentre il sole ogni tanto usciva emozionato a sbirciare la platea, lei si rivolse al mare con tono dolce ma determinato "potresti portarmi via con te dove possa sentirmi viva e compresa?" "Il mare allora si spinse fino a bagnarne le ginocchia e dicendole di rilassarsi divenne per lei come una coperta. "Avrò cura di te. Non ti porterò in giro per il mondo, ti porterò nei luoghi più delicati, ampi e meravigliosi. Ti porterò laddove le persone mi inseriscono come ricordo. Ti farò vagare nelle sensazioni, nei sospiri dedicati al mare. Ti porterò dentro anche chi crede di avermi relegato in un angolo innocuo, e tu lì urlerai ancora più forte il mio nome. Con la tua voce giovane darai gioventù alle persone, ricorderai me, ricordando quando anche loro come te sapevano emozionarsi, stupirsi e piangere di serenità." Margherita accetto e cominciò il suo viaggio infinito nelle profondità delle persone, nei ricordi di gioia e spensieratezza. Oggi vive parlando direttamente coi sogni dei bambini che non ci sono più. E quando trova un cuore più cocciuto, ostinato a non farsi coccolare, lei rincuorando il bambino che accarezza, sussurra quello che sussurrava sempre a chi le chiedesse dei suoi giochi "Sei troppo piccino per capire". I grandi dicono che Margherita sia annegata in mare a 13 anni sulla spiaggia di Cartagine. Tu cosa dici?

Orientandomi

"Guardi, glielo speigo senza termini tecnici, questa volta non è una lesione normale, il tendine si è purtroppo consumato e ha ceduto. Mi dispiace doverglielo dire, ma la sua caviglia purtroppo non tornerà più quella di prima. Riuscirà a correre normalmente, ma dovremo farle delle terapie, e purtroppo non potrà più praticare attivita sportiva agonistica."
Era un caldo 2 Maggio padovano e, all'età di 29 anni, Manuel stava scoprendo di dover chiudere per sempre col calcio, quel calcio che oltre ad avergli fino a quel momento dato da mangiare, gli aveva da sempre riempito un enorme buco che sentiva di avere dentro. Un sospiro avvolse tutta la sua vita in quell'istante. Sentì che c'era qualcosa di strano dentro di lui. Invece della disperazione che si sarebbe aspettato di provare, fu pervaso da un forte senso di sollievo. Un po' come la moglie dell'alcoolista violento, che non sa lasciarlo ma ne augura la morte, così Manuel accolse la notizia che il calcio usciva per sempre dalla sua vita. Solitamente si impiega molto più tempo a trasformare i cambiamenti forzati in nuove opportunità, ma forse tanto era stata la vita che il suo amato calcio gli aveva condizionato, che lui stesso era finito per sparire dietro ad una passione travolgente e diventare vittima di sè stesso.
"La ringrazio dottore, arrivederci."
Il tempo di uscire dall'ambulatorio e respirare l'aria come se vivesse da quel giorno per la prima volta. Una lacrima lavò quel nuovo viso e un sorriso finì l'opera connettendo il viso al cuore.
"E ora?" Pensava, senza riuscire a levarsi quel sorriso dal viso. Pensò ai soldi che aveva da parte, e che avrebbero potuto garantirgli una piccola pausa prima di entrare a tutti gli effetti nella ditta di famiglia. Non era tipo da vender salumi lui, non lo era mai stato, ma senza il calcio questo futuro gli sembrava ormai inevitabile e una laurea in filosofia sapeva benissimo quanto poco valesse in ambito lavorativo. Non c'è tempo però di pensare al domani quando ci si deve ricostruire il presente e così Manuel giunse alla conclusione che fosse arrivato finalmente il momento del viaggio che aveva sempre sognato. L'Oriente. Il tempo di arrivare a casa ed era già su internet a cercare il biglietto aereo. Preso. Partenza il 5 Maggio, ritorno non programmato. Era il momento di fare la valigia. In quel periodo della sua vita Manuel viveva con alcuni amici, due ragazzi e una ragazza con cui aveva condiviso il percorso universitario e che si trovavano ancora a Padova per fare corsi specialistici. Decise di non dire nulla a nessuno del viaggio, ma di lasciare un biglietto. I primi due giorni furon dedicati alla preparazione dei documenti appositi, allo studio di Istambul su internet e al saluto ai posti della sua padova in cui, più o meno volontariamente, aveva lasciato pezzi di sè stesso. Il giorno 5 il volo era previsto per le ore 20 e Manuel aveva deciso di dedicare le sue ultime ore prima di partire per l'aeroporto di Venezia ai suoi coinquilini. La casa era vuota perchè tutti erano usciti per andare a lezione o a lavoro. Entrò nella camera di Francesco. Francesco era un ragazzo toscano, che viveva a Padova da ormai 7 anni, ma che ancora non aveva non solo perso l'accento originario, ma anche quello sguardo un po' da spaesato di chi è in contatto con il luogo in cui vive, ma non ne è in simbiosi. Manuel decise che, da ognuna di quelle 3 stanze, avrebbe preso qualcosa da portare con sè che rappresentasse il proprietario della stanza. Con Francesco Manuel era sempre andato molto d'accordo, ma non era mai riuscito a sopportare la musica che il toscano ascoltava. La camera di Francesco era infatti piena all'inverosimile di cd regge. Decise che però per quel viaggio forse valeva la pena dare una possibilità anche alla musica di Francesco. In fondo si trattava di costruire il nuovo "sè" e quale miglior proposito che farlo mettendo in discussione i propri gusti musicali e provando nuove musiche? Prese a caso un cd di Bob Marley e lo infilò nello zaino, rigorosamente invicta con cui aveva deciso di partire. Per tutti gli anni della scuola i genitori gli avevano comprato zaini di sottomarche e lui non era mai riuscito a sopportarlo. Quello zaino fu il primo acquisto agli albori della sua nuova vita universitaria e Manuel era convinto gli avesse sempre portato fortuna. Lasciata la camera di Francesco si diresse verso la camera di Anna ma all'ultimo sterzò e decise di lasciarla per ultima. La stanza di Marco era un disastro, disordine ovunque e igiene trascuratissima. Ma questo era Marco, un ragazzo con un meraviglioso caos creativo, che spandeva in ogni cosa che facesse. Manuel adorava il piccolo Marco e lo sentiva come un fratello più piccolo da difendere e coccolare. Una volta lo aveva pefino accompagnato in una specie di viaggio di sopravvivenza in mezzo ad un bosco dalle sue parti vicino Biella. Di quel viaggio Manuel ricordava tante cose divertenti, ma più di ogni altra ricordava come si erano divertiti ad aprire i pesci appena pescati utilizzando il coltellino svizzero color blu che avevano comprato prima di partire. In realtà avevano comprato due coltellini prima della partenza, ma ovviamente Marco perse il suo probabilmente ancora prima di scendere dall'auto. Decise che il coltellino sarebbe stato un ricordo potenzialmente anche utile e lo mise nello zaino. Restò molto in camera di Marco a guardare le vecchie foto e a pensare a quanto gli sarebbe mancato, ma restò molto lì dentro anche per allontanare il più in fretta possibile il momento di entrare nella camera di Anna. Anna era una ragazza di Modena, arrivata a Padova con la voglia di cambiare il mondo. Dal primo giorno in quella casa aveva instaurato con Manuel un rapporto molto diretto, molto aperto. C'era sintonia e forse anche parecchia stima reciproca. Erano animali simili, eternamente schiavi delle proprie lune e opere incompiute della propria discontinuità. Vederli insieme era bello, parlavano di tutto ma stavano anche tanto in silenzio, riuscendo a passare ore insieme senza dirsi una parola, ma ritrovandosi continuamente ad osservare lo stesso oggetto. Lo stesso fiore, termosifone, tostapane... Lui non sapeva definire il fascino che lei esercitasse su di lui, e a tratti si era convinto perfino di essere condannato ad amarla. Per fortuna a tratti si era ritrovato anche ad odiarla, e questo forse lo aveva salvato o rovinato, ma di sicuro gli aveva permesso di trovare una dimensione accettabile, di galleggiare su quel fascino e poterne godere senza intaccarlo. "Chissà se in oriente troverò pezzi di lei" pensò, e passarono parecchi minuti prima che decidesse che oggetto sottrarle. Alla fine opto per il suo fazzoletto, quello che era solito annodarsi al collo prima di salire in bicicletta. Era pieno del suo profumo e Manuel pensò che di una persona così non si potesse che rubarne qualcosa attraverso i sensi. Non lo mise dentro allo zaino, ma decise di legarlo sullo zaino in modo da vederselo sempre con la coda dell'occhio alle spalle. Chiuse dietro di sè quell'ultima porta, e andò in soggiorno. Aveva comprato 100 pastine di diverso assortimento e le aveva messe sul tavolo perchè voleva che il ricordo della sua partenza fosse legato indissolubilmente al ricordo di qualcosa di dolce. Solo anni dopo gli raccontarono che, per quell'idea, rischiò di vedere il suo ricordo invece per sempre collegato ad un'indigestione... Tutto erà pronto per partire, prese carta e penna e scrisse.

"Cari amici io vado via per un po'. Sto partendo per Istanbul, e da lì comincerà il viaggio in oriente che ho sempre sognato. Non so se e quando tornerò, ma ho lasciato 3 spritz pagati al nostro solito bar perchè brindiate alla mia salute. Siete dentro di me e vi prometto che troverò il modo di farvi avere mie notizie. Vi voglio bene. "

Alle 21 Manuel piangeva a dirotto vedendo dall'aereo una stella cadente, alle 24 le luci di Istambul, sedute a guardarlo arrivare, gli davano il benvenuto.