sabato 3 dicembre 2011

foglia di thé

Fa freddo. Elena sta seduta in auto mentre Luca guida. Ha promesso di aiutare il suo amico a ritrovare sè stesso, ha promesso di aiutarlo a riscoprire su cosa fondare la sua vita, ma soprattutto la promessa più grande l'ha fatta a sè stessa, ha promesso che sarebbe diventata importante per lui. L'appuntamento sotto casa sua alle 8, la sveglia alle sei e mezza. Prepararsi il the e non berlo per paura dei tornanti, provare cinque maglioni colorati e mettere quello nero che sfina e tutti gli altri sopra al letto. Scarpa comoda o scarpa bella? Scarpa o stivale? Elena ha davanti agli occhi la fotografia della ex di Luca. Ogni volta che ci pensa finisce per coprirsi le forme con le cose più larghe che trova. Elena non si sente brutta, ma non si sente all'altezza di Luca, crede che per lui sarà sempre solo un'amica, perchè certe cose non sono per lei. Ha paura di sbagliare pantalone, di mettere quello troppo stretto o quello troppo comodo. Una cosa dovrebbe valere l'altra vista la sua scarsa autostima, ma qualcosa in lei sembra sempre suggerire di non arrendersi. Di provare quantomeno a non farsi schifo allo specchio. "Io e Luca in montagna" continua a ripetersi da tre giorni prima di andare a dormire, alla fine di ogni giornata difficile al negozio e la mattina quando deve uscire e piove. Ora in auto pensa che avrebbe potuto osare di più con le scarpe e sbarra gli occhi quando ricorda di non aver preso l'elastico per i capelli. Ormai comunque poco conta, è in auto con lui e il sottile gioco di battute e prese in giro che caratterizza il loro rapporto fa da condimento a tornanti guidati dolcemente. "Che bene che guida anche in montagna pur essendo nato al mare, è sempre così sicuro..." Passeggia con lui spaventata dall'idea di sfiorare il suo corpo, e crolla ogni qualvolta lui, per scherzare, le tocchi il braccio. Si è ripromessa di non parlare troppo, il percorso è serio, non è una scampagnata, è un viaggio di ricerca, e mentre pensa a come esser la compagna di viaggio perfetta, ogni tanto, con timidezza, lascia che la montagna entri dentro di lei, ne osserva i colori, ne annusa i profumi, ne ascolta con attenzione i ruomori. Tra tutti i rumori quello delle auto che curvano sulla neve è il più emozionante. Le ricorda l'auto di suo padre che parcheggia sulla ghiaia mentre il suo nasino di bimba si raffredda sfiorando il vetro della finestra. Bere cioccolate buonissime, vedere le facce segnate dal freddo delle persone di montagna, camminare ignorando il male ai piedi. Così tante piccole cose meravigliose, figlie di una straordinarietà semplice, di una quotidianità solo sognata e che forse resterà sempre solo un sogno. Una lunga giornata da cui poi dovrà tornare da sola. Lui rimarrà in montagna qualche giorno, lei non può, deve lavorare, ma prendere un autobus per il ritorno non è un problema. "Sorridi Luca, non essere triste" pensa guardando il modo in cui lui, con squardo a volte nervoso e a volte scoraggiato, guarda tutto quello che lo circonda. Guarda in continuazione le sue mani che entrano ed escono dalle tasche della giacca. Che bene che gli sta il verde scuro del maglione. Pranzare insieme, poter vedere con che mano lui sollevi la tazzina del caffè, sentirlo lamentarsi della cioccolata, guardare la linea del suo viso mentre cerca risposte intorno a sè. Le 7 arrivano in fretta e l'autobus parte senza che lei riesca ad aggiungere una sola parola a pochi istanti di silenzio, con i suoi occhi nei suoi. Il rumore della strada e la sensazione di non aver perso un'occasione, ma di dover ancora una volta dividere la notte con un pensiero malinconico, di vita a metà, di emozioni che non potrà mai condividere. Un sospiro profondo mentre crolla, ancora in parte vestita, sul letto. La speranza che lui si accorga domani della foglia che di nascosto gli ha infilato nella tasca della giacca. La foglia più bella di una giornata intera di montagna.

domenica 27 novembre 2011

Il limite tra qui e lì.

Ogni volta che Luca va in montagna si ritrova a pensare decisamente troppo. Per uno nato al mare la montagna è un bel casino, non si capisce in 5 minuti e forse nemmeno in 5 anni. Tutto sta forse nel trovare la propria montagna, inteso come la propria sensazione, il proprio modo di viverla.
Questa volta Luca ha cercato di girare la situazione, stravolgere il punto di vista, e domandarsi se per caso non ci sia in lui un'eccessiva esaltazione della montagna, dovuta magari al solo fatto che in essa siano rachiusi alcuni capi saldi della sua vita. C'è la tranquillità della roccia, ci sono gli ampi spazi compresi in altri spazi. C'è il cielo vicino, ci sono le persone non invadenti, c'è la sensazione che nulla cambierà a breve, ma che tenderà a spostarsi con molta lentezza. Queste cose fanno parte di lui e della montagna. Certi cespugli seccati dal freddo sono le parti brutte della sua vita. Parti brutte ma necessario condimento della situazione, del contesto. Non so perchè si sia messo in testa che lui e la montagna siano animali simili, di fatto questa volta arriva alla montagna con
l'unico obiettivo di disfarsi di questo scomodo pensiero. Guidando tra le curve si accorge di come sia imbranato con l'auto oltre un metro sopra il livello del mare. Perfino i dossi in città si prendono gioco di lui, e lui cercando di giocare d'anticipo li affronta accelerando. Il freddo non gli piace e non gli è mai piaciuto. Da piccolo aveva ideato un sistema per mettere il riscaldamento per le strade. Crescendo l'ha abbandonato.
Le donne di montagna non gli piacciono, gli uomini di montagna non gli dicono proprio nulla. Nei negozi dei paesini montani mancano un sacco di cose, e se così non fosse, così sarebbe comunque.
La terra è dura, non accogliente. L'erba punge e i cani che incrocia hanno freddo, anche se sembrano divertirsi. Le famigliole gli stanno sulle palle. In montagna nei weekend è piena di famigliole. Pensa e ripensa Luca, fino a concludere che evidentemente levarsi la montagna dalle cose che lo affascinano sarà più facile del previsto. E' soddisfatto mentre si dirige alla macchina dopo questi giorni di ricerca, questi giorni di mani e orecchie fredde, di cioccolate eccessivamente costose e liquide, di piedi troppo ricoperti di sudore la sera, per via di calzini troppo premurosi. Luca si sta dirigendo verso l'auto quando in un attimo scorge l'essenza di tutto e si ritrova inerme. Davanti ad un burrone rivede tutta la vita, il limite tra il qui e il lì. L'essere sopra a tutto e appena sotto al cielo. Vedere vicino ma non poter toccare. A pochi passi da un burrone ritrova gli spazi aperti del mare, gli uomini formica, la sensazione di non essere. Frantumatasi in polvere la sua missione, si ritrova nudo, ad accettare che la montagna continuerà ad affascinarlo. Apre un libretto in cui segna appunti, e su cui ha deciso di annotare tutte le cose di cui si è rassegnato di subire il fascino. Legge. L'odore della benzina, il neo della mia ex, la parola karma. Scrive. La montagna. E già che c'è, aggiunge un'altra parola. Luca.

mercoledì 3 agosto 2011

Sfiga

Fantastico inizio di giornata! Il tempo di salutare appena ieri tutti i coinquilini, chi va in Toscana, chi va sul Garda, chi sulla costa veneziana e poi pochi secondi per scivolare in una nuova cazzata, quasi bella nel suo genere. Oggi mi porto il computer a lavoro? Si certo, pesa un sacco e la tracolla che mi è rimasta è corta, ma me lo porto, tanto ci metto un attimo ad arrivare in bici. Gli altri giorno non l'avevo mai portato. Oggi si. Bene. Caldo oggi, molto caldo, Agosto padovano, ma non quello post pioggia che fino a ieri lasciava respiro, oggi è caldo vero, col sole che ti guarda uscire dalla porta sorridendoti e poi stringendo gli occhi alla Clint Eastwood. "A noi due" e pam! eccoti 30 gradi addosso. Fanculo diresti ma hai paura che ti senta e alzi l'intensità dei raggi. Non c'è niente da ridere, per gli egizi era un Dio e chi siamo noi per dire che non è vero? Dio o non Dio è spesso uno stronzo, ma chi a volte non lo è? Ok. Dicevamo, la cazzata. Ebbene si è già capito cosa mi succede no? La porta. Che nessuna popolazione ha mai considerato un Dio, ma a cui niente vieta di essere stronza. La porta si chiude alle mie spalle. Le chiavi? Ovviamente dentro. Nella cassettina porta chiavi eh! Scherziamo? Io son preciso nel dimenticare le cose. Giuro, e non sto scherzando, che oggi mi ero pure ricordato di prendere gli integratori col fosforo che da ben 3 giorni scordavo di prendere! And isn't it hironic? diceva Alanis Morisette in una canzone che adoravo a 15 anni. Inutile dire che, per non dimenticarle, le chiavi del lucchetto della mia bicicletta, sono insieme alle chiavi di casa... E così eccomi camminare digrignando i denti fino a lavoro, mezzorettina di strada a pieni in zona con pochi portici e tantissimo sole... Non bestemmio solo per quel discorso che ho fatto prima, nel dubbio bestemmio all'arrivo! Già l'arrivo, dopo 1 minuto e mezzo dall'arrivo già la vecchia che lavora nel turno prima di me mi sta facendo sclerare, ed era penso da un anno buono che non la mandavo a cagare... Oggi la mando. Suona il telefono, messaggio. "Buona giornata tesoro e buon lavoro :) ". Sorrido tra il "mavaacagare" e la riconoscenza per chi, in modo unico, mi è sempre vicino, anche non immaginando quanto sia questo importante per me. "Grazie mille! Anche a te! A me la giornata è cominciata con un paio di colpi di sfiga...ma resisto! :) ". Perchè in fondo anche nella sfortuna a volte si nasconde un lato bello di opportunità. La padrona di casa mi dice che passerà ad aprir la porta col suo pass e me la lascerà aperta. Ho sentito Federica, la mia coinquilina, e scherzato un po' via sms. Non esiste mai niente di totalmente brutto, perchè, nella stessa esperienza brutta, spesso son nascoste le chiavi di porte di stanze nuove della nostra mente. Come quando il guardiano gigante del villaggio turistico dove abitavo, mi guardò tutto spaventato mostrandomi che uno gli aveva appena fatto saltare 3 denti con un pugno. Si nascondeva nello sgabuzzino di casa mia che gli stava appena intorno come un vestito su misura. "Spero non torni a cercarmi! Non mi importa per i denti comunque. Tanto ho la piorrea, sarebbero caduti comunque, disse accennando un sorriso zoppo". La vita va presa così no? Tipo, il titolo di questo brano, sembra una brutta parola, ma contiene o non contiene una parola bellissima? Ciao!

venerdì 29 luglio 2011

ciclicittà

Da quando ha imparato a scrivere ha sempre rispettato tutte le lettere. Herzan scrive da sempre, e ha dovuto abbandonare la scrittura a mano perchè lo trascinava in vortici di pensiero. Come sto scrivendo? Si domandava. Le sue lettere mutavano da frase in frase e da parola in parola, a volte, addirittura, una parola aveva la stessa lettera scritta in maniera diversa da una sillaba all'altra. Il giorno poi che egli scoprì che la lettera "G" rappresentava la sessualità, segnò la fine della sua infanzia come scrittore, e prima di riempire fogli con enormi "g" scritte con i più assurdi girigori barocchi, allo scopo di colpire chissà poi chi, decise di passare alla tastiera del pc, così uniforme, prevedibile, asettica. Pensare a ciò che si scrive, e non a come lo si scrive, era ed è essenziale per chi, come lui, non è un gran scrittore, ma a volte azzecca qualche frase, fa filar bene qualche racconto. Inevitabilmente, quindi, il computer cambiò la sua vita, e si può dire la migliorò, ma c'è una lettera per la quale ancor oggi Herzan prova nostalgia. Nel suo scrivere la lettera "i", infatti, era solito scivolare in una piccola analisi introspettiva di sè stesso di cui si bagnava totalmente per poi asciugarsi solo alla fine del brano. Nella grafia, questa è forse la lettera più facile di tutte da riprodurre, ma il dio della scrittura, o chi per lui, l'ha dotata di uno strumento diabolico: il puntino. Una "i" senza puntino era da sempre per Herzan un fratello minore abbandonato al proprio destino, un cono senza la pallina, un'enorme opera incompiuta. Ci sono "i" a cui si mette subito il puntino, "i" a cui lo si mette a fine parola, altre, invece, a cui lo si mette a fine discorso, nella malinconica fase della rilettura. E così Herzan ha imparato a leggere e rileggere la propria vita, ha imparato a non abbandonare a metà nessuna "i", ha imparato che ci dev'essere sempre un punto da qualche parte che si è perso, ma che brama il proprio posto nella pagina. Oggi Herzan ha messo un punto bello grande, molto curato, quasi un ricciolino. La "i", questa volta, era quella della parola "ciao".

martedì 28 giugno 2011

Dei delitti e delle pene

Che io questo post lo scrivo solo per scrivere questa frase qui che mi è entrata in testa:

"Il femminile di pene è pena."


domenica 22 maggio 2011

on line

"Ma guarda che schifo, senti che puzza di polvere"
"Stai calmo"
"Calmo un cazzo, fa schifo qui, non è serio. Io me ne vado."
"No, perfavore, me l'hai promesso. Ho preso 8 in storia"
"Va bene, ma se non arriva tra 5 minuti io me e vado e ti aspetto in macchina. Ma che stronzata è questa? Cosa centro io?"
"Papà lo sai che se dipendesse da me non ti farei stare qui. ma niente più ora dipende da me e sono costretto a farlo"
"Va bene va bene ma ho detto 5 minuti. Ne è già passato uno."
Mio padre odiava guardare in faccia la realtà, era impossibile quando ci si metteva, ma quella volta mi aveva promesso che mi avrebbe aiutato. La mia vita era un mezzo disastro, ma poi invecchiando scopri che a 16 anni che la vita possa essere un disastro ci può anche stare, il punto è che tutto quello che ti circonda a quell'età ha un'aria solenne, importante. Ti lascia la ragazza, ok nessuno ti amerà mai più, prendi 4 in italiano, ok non scriverai mai un libro. Insomma a 16 anni parole come "mai" e "più" sono martelli che torturano la tua serenità. Certo la mia situazione era una bella merda comunque, ma avevo deciso che dovevo fare qualcosa per cambiarla, e convincere mio padre a incontrare di nuovo mia madre mi sembrava la partenza necessaria. Ormai era da 1 anno che si erano lasciati, ma non c'era ancora ufficialità al divorzio perchè, dal maledetto giorno di quella litigata, non si erano più voluti vedere o parlare. Mio padre era un operaio, una persona per bene ma incazzata col mondo. Mia madre era una psicologa specializzata nell'assistenza dei ragazzi delle scuole medie.
"un minuto, un altro minuto al massimo"
Io credo che ne fossero passati almeno 7, ma mio padre cominciava a desiderare di vederla ormai, e più passava il tempo più la sua insofferenza puzzava di spettacolo teatrale. Avevo preso un appuntamento nel suo studio dando un falso nome, non volevo che mia madre arrivasse pronta all'incontro, era troppo intelligente per mio padre, con la giusta preparazione l'avrebbe potuto distruggere, e no, questo quel pover uomo incazzato non lo meritava proprio.
"Ok basta. Andiamo via cazzo."
"No, eccola!"
La porta si aprì ed etrò una donna distratta, che guardava per terra portando in mano fogli pesanti. Aveva una gonna nera fin sotto al ginocchio, una camicia bordeaux e le calze scure. Non avevo mai visto mia madre a lavoro, non sembrava nemmeno lei con i capelli raccolti.
"Buongiorno"
"Buongiorno"
Sbigottita mia madre sistemò gli occhiali e riconobbe mio padre.
"Buongiorno" ripetè imbarazzata come se non avesse già salutato.
"Buongiorno un cazzo!" esclamò mio padre. Ma il suo sguardo era troppo ferito perchè potesse suonare d'insulto la sua frase.
"Ciao mamma, scusa, è colpa mia. Devo parlarvi, vi prego. Sediamoci, vi prego."
"Io sto in piedi!" esclamò mio padre. Mia madre invece sussurò che stava lavorando e non poteva fermarsi ma io le risposi che l'appuntamento dalle 16 alle 17 l'avevo preso io e che quindi per un'ora lei non aveva niente da fare.
Mia madre si sedette sospirando come se stesse per partire per la guerra. Avvicinò a se il posacenere e si accese una sigaretta.
"Lo sai che questo non è il modo..." La fermai prima che potesse continuare a parlare.
"Chiedo scusa ad entrambi ma se non vi parlo ora forse domani sarà già troppo tardi."
A mio padre tremava il ginocchio. Una goccia di sudore scendeva ogni 10 secondi dalla sua fronte, colando al lato del viso fino ad infilarsi sotto alla camicia nera.
Mi resi conto in quel momento, che dopo tanto tempo si era rasato il viso e pensai che doveva essere per desiderio di rivincita.
Io credo dobbiate parlare, ma non so cosa dire. Posso però mostrarvi una cosa che in fin dei conti è il motivo per cui siamo qui ora. Estrassi dallo zaino un disegno e lo misi sulla scrivania di mia madre. A dire il vero non era un vero e proprio disegno, ma un foglio bianco con una linea tracciata al centro che lo divideva a metà.
"Sono fermo qui" dissi loro. "E' da giorni che tutta la mia vita è attraversata da linee. Mi perseguitano, dividono ogni cosa che io veda. L'altro giorno ho pianto perchè sentivo che le linee stavano massacrando la mia testa, stavano urlando dietro di me. Sento che devo spaccare qualcosa in continuazione, distruggo tutto dividendolo a metà e poi ancora a metà. Ora, io credo dipenda da voi. Sta a voi decidere cosa farne di me, perchè la prossima cosa che distruggerò sento che sarà me stesso."
Mia madre rimase in silenzio e portò la sua mano sulla mia dicendomi di venire più vicino con la sedia. Mio padre decise invece di sedersi sul divano polveroso, spofondò in quel divano e della polvere non gli importava più.
"Io non vi chiedo niente ma ho creato una stanza di carta bianca e vi ho messo una matita in mano. Ora sta a voi decidere se tracciare una linea ma sto finendo le forze, e sappiate che dovrete assumervene la responsabilità se lo farete."
Mia padre non ce la poteva fare a parlare, era proprio impossibile che da lui venisse fuori qualcosa in quel momento. Mia madre lo sapeva e sapeva di avere il microfono puntato. Toccava a lei, come sempre quando c'era da parlare, come mai quando c'era da agire concretamente.
"Credo che ti dobbiamo delle scuse perchè quella riga è piena di sangue. Bagnata di dolore. Credo che nessun figlio dovrebbe notare l'umanità dei genitori, almeno finchè questi sono in grado di non farsela addosso." Mio padre fissò il pavimento e poi sollevò gli occhi. Ora o mai più sembrava pensare. "Scusa, stronza. Però scusa." disse con voce tremante. Strinsi forte la mano di mia madre e lei scoppiò in un pianto di dignità e orgoglio.
I miei non tornarono mai insieme ma da quel giorno ripresi a vivere normalmente, ricominciai anche a disegnare cose che non fossero linee. Smisi di svegliarmi in lacrime nella notte. Non c'era stata una soluzione quel giorno, ma avevo alleggerito i miei genitori di un peso che portavano dentro. Credo che sia per questa ragione che mio padre poi riuscì a trovare una nuova compagna. Credo sia grazie a me che mia madre torno a sciogliersi i capelli. Non eravamo più quelli della foto in montagna che tenevo sempre sul comodino. Dopo quel giorno loro erano molto più giovani e io ero diventato molto più vecchio. Non ebbi mai più sedici anni e ancora oggi penso che me li meritassi invece, i miei sedici anni. Nel dubbio prendo mia moglie e mio figlio e scatto l'ennesima foto tutti insieme. Senza linee.

Mar, gherita

Questa è la storia di una bambina che non c'era più. Di uno spirito di profumo e vento che, cullandosi tra i capelli delle folle, alleggiava tra campi in fiore, cani che sorridono e luci di natale. Si chiamava Margherita l'origine di questo spirito, ed era una bambina vissuta tanti anni fa nell'antica Cartagine. La leggenda racconta di un cucciolo molto solo, ma educato in una famiglia importante, che aveva badato più ad istruirne la mente che a confortarne il cuore. Troppo grande per gli altri bambini e troppo piccola per i grandi, Margherita giocava con se stessa inventando giochi che i libri non potrebbero mai raccontare, giochi che farebbero balbettare il più abile scrittore. "Siete troppo piccini per capire" era la risposta che dava a chiunque chiedesse dei suoi giochi. Aveva capelli mori che correvano fino a bagnarne le spalle, ma ciò che più colpiva di lei erano gli occhioni con cui accoglieva il mondo nel cuore. Erano occhi che sembravano non sbattere mai le ciglia, da quanto scrutassero attenti tutto ciò che dal mondo richiedeva attenzione. E tutto richiedeva attenzione ad una persona così attenta, almeno quanto tutto sembrava inutile ad una persona che si professasse normale. Si potrebbe dire che la collana che portava sempre con sè fosse un ricordo di sua madre. Non che sua madre non fosse viva e presente, ma era come se per lei fosse morta tanti anni prima, visto che nella sua immaginazione aveva inventato una madre diversa, eterea, dolce e affettuosa. Il collegamento tra le due donne, quella reale e quella immaginaria, era quella collana di perle che portava sempre con sè. La piccola si divertiva ad imprigionare in ogni perla tutti gli stupori del giorno, e la notte quando andava a coricarsi, stringendo la collana, era convinta di far entrare tutto nei sogni e possedere la bellezza delle cose del mondo. Nelle sue perle c'erano i sorrisi degli anziani del porto, le voci del mercato, i colori della natura. Era proprio immersa in uno di questi giochi il giorno in cui, a 13 anni, scappò di casa alle 5 di mattina per accogliere in riva al mare l'arrivo della rosea alba estiva. Si sedette ad aspettare domandandosi se le perle sarebbero state sufficientemente grandi, per tutto lo spettacolo meraviglioso di cui aveva letto soltanto nei libri fino a quel giorno. Solo a dire la parola alba sorrideva impaziente. "Non hai freddo tesoro?" le disse una voce lontana all'improvviso. E, prima che ella potesse capire, si ritrovò in una conversazione meravigliosa con un interlocutore che non poteva vedere ma che la circondava. "Non avere paura, sono il mare, e sono qui per farti compagnia". "Ciao mare, sono felice che tu mi parli. avevo un po' paura a ritrovarmi così sola qui". La capacità dei bambini di arrendersi all'evidenza è l'unica porta d' ingresso per la magia. Perchè non è vero che il mare ancor oggi non ci chiami e chieda compagnia, ma siamo talmente abituati a non poterla considerare una cosa vera, che subito ridiamo di noi stessi o ci diamo dei pazzi. Per la piccola era invece normale, normale come immergere i piedi e sentire che l'acqua già calda aiutava a sentirsi più belli e felici. "Pensi di mettere tutto lo spettacolo che vedrai in una sola delle tue perle? credi veramente che ci stara tutto? " "Non lo so " rispose lei " ma in effetti credo di no. Ho portato una scatolina con me però! E' quella blu in cui ho trovato la collana... E' piccina ma spero basti. Tu ci vieni nelle mie perle?" "Il mare rimase in silenzio ripetendo solo il suo gentile fruscio di onde. " io ci verrei ma tu mi porteresti tra uomini orribili, che mi tratterebbero come la perla di una collana di una bambina a cui non crederebbero mai. ma tu invece non credi di meritare di più?" Ora era lei a tacere, e mentre il sole ogni tanto usciva emozionato a sbirciare la platea, lei si rivolse al mare con tono dolce ma determinato "potresti portarmi via con te dove possa sentirmi viva e compresa?" "Il mare allora si spinse fino a bagnarne le ginocchia e dicendole di rilassarsi divenne per lei come una coperta. "Avrò cura di te. Non ti porterò in giro per il mondo, ti porterò nei luoghi più delicati, ampi e meravigliosi. Ti porterò laddove le persone mi inseriscono come ricordo. Ti farò vagare nelle sensazioni, nei sospiri dedicati al mare. Ti porterò dentro anche chi crede di avermi relegato in un angolo innocuo, e tu lì urlerai ancora più forte il mio nome. Con la tua voce giovane darai gioventù alle persone, ricorderai me, ricordando quando anche loro come te sapevano emozionarsi, stupirsi e piangere di serenità." Margherita accetto e cominciò il suo viaggio infinito nelle profondità delle persone, nei ricordi di gioia e spensieratezza. Oggi vive parlando direttamente coi sogni dei bambini che non ci sono più. E quando trova un cuore più cocciuto, ostinato a non farsi coccolare, lei rincuorando il bambino che accarezza, sussurra quello che sussurrava sempre a chi le chiedesse dei suoi giochi "Sei troppo piccino per capire". I grandi dicono che Margherita sia annegata in mare a 13 anni sulla spiaggia di Cartagine. Tu cosa dici?

Orientandomi

"Guardi, glielo speigo senza termini tecnici, questa volta non è una lesione normale, il tendine si è purtroppo consumato e ha ceduto. Mi dispiace doverglielo dire, ma la sua caviglia purtroppo non tornerà più quella di prima. Riuscirà a correre normalmente, ma dovremo farle delle terapie, e purtroppo non potrà più praticare attivita sportiva agonistica."
Era un caldo 2 Maggio padovano e, all'età di 29 anni, Manuel stava scoprendo di dover chiudere per sempre col calcio, quel calcio che oltre ad avergli fino a quel momento dato da mangiare, gli aveva da sempre riempito un enorme buco che sentiva di avere dentro. Un sospiro avvolse tutta la sua vita in quell'istante. Sentì che c'era qualcosa di strano dentro di lui. Invece della disperazione che si sarebbe aspettato di provare, fu pervaso da un forte senso di sollievo. Un po' come la moglie dell'alcoolista violento, che non sa lasciarlo ma ne augura la morte, così Manuel accolse la notizia che il calcio usciva per sempre dalla sua vita. Solitamente si impiega molto più tempo a trasformare i cambiamenti forzati in nuove opportunità, ma forse tanto era stata la vita che il suo amato calcio gli aveva condizionato, che lui stesso era finito per sparire dietro ad una passione travolgente e diventare vittima di sè stesso.
"La ringrazio dottore, arrivederci."
Il tempo di uscire dall'ambulatorio e respirare l'aria come se vivesse da quel giorno per la prima volta. Una lacrima lavò quel nuovo viso e un sorriso finì l'opera connettendo il viso al cuore.
"E ora?" Pensava, senza riuscire a levarsi quel sorriso dal viso. Pensò ai soldi che aveva da parte, e che avrebbero potuto garantirgli una piccola pausa prima di entrare a tutti gli effetti nella ditta di famiglia. Non era tipo da vender salumi lui, non lo era mai stato, ma senza il calcio questo futuro gli sembrava ormai inevitabile e una laurea in filosofia sapeva benissimo quanto poco valesse in ambito lavorativo. Non c'è tempo però di pensare al domani quando ci si deve ricostruire il presente e così Manuel giunse alla conclusione che fosse arrivato finalmente il momento del viaggio che aveva sempre sognato. L'Oriente. Il tempo di arrivare a casa ed era già su internet a cercare il biglietto aereo. Preso. Partenza il 5 Maggio, ritorno non programmato. Era il momento di fare la valigia. In quel periodo della sua vita Manuel viveva con alcuni amici, due ragazzi e una ragazza con cui aveva condiviso il percorso universitario e che si trovavano ancora a Padova per fare corsi specialistici. Decise di non dire nulla a nessuno del viaggio, ma di lasciare un biglietto. I primi due giorni furon dedicati alla preparazione dei documenti appositi, allo studio di Istambul su internet e al saluto ai posti della sua padova in cui, più o meno volontariamente, aveva lasciato pezzi di sè stesso. Il giorno 5 il volo era previsto per le ore 20 e Manuel aveva deciso di dedicare le sue ultime ore prima di partire per l'aeroporto di Venezia ai suoi coinquilini. La casa era vuota perchè tutti erano usciti per andare a lezione o a lavoro. Entrò nella camera di Francesco. Francesco era un ragazzo toscano, che viveva a Padova da ormai 7 anni, ma che ancora non aveva non solo perso l'accento originario, ma anche quello sguardo un po' da spaesato di chi è in contatto con il luogo in cui vive, ma non ne è in simbiosi. Manuel decise che, da ognuna di quelle 3 stanze, avrebbe preso qualcosa da portare con sè che rappresentasse il proprietario della stanza. Con Francesco Manuel era sempre andato molto d'accordo, ma non era mai riuscito a sopportare la musica che il toscano ascoltava. La camera di Francesco era infatti piena all'inverosimile di cd regge. Decise che però per quel viaggio forse valeva la pena dare una possibilità anche alla musica di Francesco. In fondo si trattava di costruire il nuovo "sè" e quale miglior proposito che farlo mettendo in discussione i propri gusti musicali e provando nuove musiche? Prese a caso un cd di Bob Marley e lo infilò nello zaino, rigorosamente invicta con cui aveva deciso di partire. Per tutti gli anni della scuola i genitori gli avevano comprato zaini di sottomarche e lui non era mai riuscito a sopportarlo. Quello zaino fu il primo acquisto agli albori della sua nuova vita universitaria e Manuel era convinto gli avesse sempre portato fortuna. Lasciata la camera di Francesco si diresse verso la camera di Anna ma all'ultimo sterzò e decise di lasciarla per ultima. La stanza di Marco era un disastro, disordine ovunque e igiene trascuratissima. Ma questo era Marco, un ragazzo con un meraviglioso caos creativo, che spandeva in ogni cosa che facesse. Manuel adorava il piccolo Marco e lo sentiva come un fratello più piccolo da difendere e coccolare. Una volta lo aveva pefino accompagnato in una specie di viaggio di sopravvivenza in mezzo ad un bosco dalle sue parti vicino Biella. Di quel viaggio Manuel ricordava tante cose divertenti, ma più di ogni altra ricordava come si erano divertiti ad aprire i pesci appena pescati utilizzando il coltellino svizzero color blu che avevano comprato prima di partire. In realtà avevano comprato due coltellini prima della partenza, ma ovviamente Marco perse il suo probabilmente ancora prima di scendere dall'auto. Decise che il coltellino sarebbe stato un ricordo potenzialmente anche utile e lo mise nello zaino. Restò molto in camera di Marco a guardare le vecchie foto e a pensare a quanto gli sarebbe mancato, ma restò molto lì dentro anche per allontanare il più in fretta possibile il momento di entrare nella camera di Anna. Anna era una ragazza di Modena, arrivata a Padova con la voglia di cambiare il mondo. Dal primo giorno in quella casa aveva instaurato con Manuel un rapporto molto diretto, molto aperto. C'era sintonia e forse anche parecchia stima reciproca. Erano animali simili, eternamente schiavi delle proprie lune e opere incompiute della propria discontinuità. Vederli insieme era bello, parlavano di tutto ma stavano anche tanto in silenzio, riuscendo a passare ore insieme senza dirsi una parola, ma ritrovandosi continuamente ad osservare lo stesso oggetto. Lo stesso fiore, termosifone, tostapane... Lui non sapeva definire il fascino che lei esercitasse su di lui, e a tratti si era convinto perfino di essere condannato ad amarla. Per fortuna a tratti si era ritrovato anche ad odiarla, e questo forse lo aveva salvato o rovinato, ma di sicuro gli aveva permesso di trovare una dimensione accettabile, di galleggiare su quel fascino e poterne godere senza intaccarlo. "Chissà se in oriente troverò pezzi di lei" pensò, e passarono parecchi minuti prima che decidesse che oggetto sottrarle. Alla fine opto per il suo fazzoletto, quello che era solito annodarsi al collo prima di salire in bicicletta. Era pieno del suo profumo e Manuel pensò che di una persona così non si potesse che rubarne qualcosa attraverso i sensi. Non lo mise dentro allo zaino, ma decise di legarlo sullo zaino in modo da vederselo sempre con la coda dell'occhio alle spalle. Chiuse dietro di sè quell'ultima porta, e andò in soggiorno. Aveva comprato 100 pastine di diverso assortimento e le aveva messe sul tavolo perchè voleva che il ricordo della sua partenza fosse legato indissolubilmente al ricordo di qualcosa di dolce. Solo anni dopo gli raccontarono che, per quell'idea, rischiò di vedere il suo ricordo invece per sempre collegato ad un'indigestione... Tutto erà pronto per partire, prese carta e penna e scrisse.

"Cari amici io vado via per un po'. Sto partendo per Istanbul, e da lì comincerà il viaggio in oriente che ho sempre sognato. Non so se e quando tornerò, ma ho lasciato 3 spritz pagati al nostro solito bar perchè brindiate alla mia salute. Siete dentro di me e vi prometto che troverò il modo di farvi avere mie notizie. Vi voglio bene. "

Alle 21 Manuel piangeva a dirotto vedendo dall'aereo una stella cadente, alle 24 le luci di Istambul, sedute a guardarlo arrivare, gli davano il benvenuto.

martedì 19 aprile 2011

Beh

Io non sono una pecora nera, mai stata. Io sono una pecora bianca come tutte le altre, solo che ho parlato col cane pastore, e dal gregge me ne vado e vengo come e quando cazzo voglio.

mercoledì 30 marzo 2011

Buondì Matto


Ho deciso di camminare sempre con un bicchiere d'acqua in tasca! E' la svolta! Appena le cose si incasinano, pluff, ci infilo la testa dentro, anestetizzo la situazione. Guardarsi da fuori è spesso neccessario ma è sempre difficilissimo. La nostra testa non ha interruttori e non si può fermare il tempo, ma spesso siamo noi a velocizzare la vita, staccarci i piedi da terra e tuffarci nel caos, senza nessuna speranza di uscirne interi. Corpo fermo, immobile, rimbalzo interiore e fuori dal corpo per 3 o 4 secondi. Dove sei? Con chi sei? E' tutto come vorresti? Cosa puoi fare per migliorare tutto questo? E poi boom, si torna al proprio posto, si sbatte le palpebre e si cambia o mantiene la situazione, guadagnandone comunque in consapevolezza. Oggi, mercoledì, mi butterò nella mischia col bicchiere d'acqua in tasca. Senza paura. E se sentirò troppo caos. Salto dentro, testa nel bicchiere, valutazione della situazione, individuazione e perseguimento nuovi scopi. Boom! Sembrerò più lento ma sarò invece molto più veloce.

giovedì 17 marzo 2011

lidl-e by lidl-e

Sono stato solido, gassoso e liquido in uno Stato che non era il mio. Berlino mi ha baciato ed è scappata via sulle sue converse. Ho accettato il gioco, ho acceso le luci della centrale elettrica e ho camminato ricercandola. Senza fretta. Ne vedevo pezzi di cappotto tra le persone e ho trovato alcuni dei suoi sguardi negli sguardi dei bambini. Berlino è giovane, adolescente forse. Berlino è consapevolmente e volontariamente insicura. Lei ti guarda delusa se metti un maglione nero.
I gatti finiscono a Berlino così come i topi finiscono a Londra. E tu sei gatto o topo?
Io sono gatto e come tale mi lego ai piedi della donna che mi ha conquistato, strusciando il pelo sulle sue caviglie e alzando ogni tanto il muso per guardarla negli occhi.
I bassi dei national come un defibrillatore mi riportano spesso in vita. Fermata. Biglietto. Fiera. Lavoro. Mascherarsi. Naturlich! E c'è correre a casa, togliere l'abito elegante come se fosse un unico costume abbassando la zip dietro. Sfilarsi l'identità, sciacquarsi per toglierne via la puzza e correre all'appuntamento con la città che scrive, la città che ha qualcosa da dirti e lo dice molto bene. Le scritte sui muri, le cartoline pubblicitarie e gli adesivi nei bagni dei locali. Cercare indizi di sè. Trovarne misti a indirizzi di Berlino e mescolare il tutto insieme.
Ma quanto bello sono a Berlino? Decisamente a mio agio in una felpa che mi nasconde bene, passeggio sentendomi re e di conseguenza bello e forte. Ma quanto siamo belli io e lei insieme? Ogni tanto ne sento la mano. C'è la mano di una città che mi da una mano. E allora mi sento vivo, anche se perso. Mi sento vivo, anzi, Lidl-e.

lunedì 7 marzo 2011

s-fuggire

Quando comincia il temporale estivo si incontrano due tipi di pesone. C'è quello che sta andando via in fretta e furia, è coperto dal suo asciugamano, ogni tanto digrigna un'imprecazione, capitano sempre tutte a lui, proprio nel giorno di festa, e lui te lo deve far sapere pensando a voce alta. Poi c'è l'altro. Il surfista. Si dice che un surfista viva aspettando "l'onda" della sua vita, si dice che per questo debba sempre sfidare il mare senza averne paura, e senza il rispetto che avrebbe un marinaio. Io non so ancora dove collocarmi ma so che ultimamente sto cercando mari in tempesta. Non ho la tavola e forse per il momento nemmeno il coraggio, ma sto imparando a memoria la strada da casa mia al mare. Mi sto informando per un surf usato in condizioni decenti. E' brutto non avere nessuno da salutare prima di andare via. E' brutto essere il soldato che le lettere le scrive alla mamma. Ma c'è un trono di tristezza nel non avere nessuno che ti aspetti all'atterraggio di un volo. In questo trono sono sempre salito. Nessuno è mai stato puntuale al mio atterraggio. In pochi mi hanno aspettato con "ansia". Nessuno ha mai deciso di venire punto e stop. Nessuna faccia amica su cui vedersi aprire un sorriso come le ali di una farfalla. E penso che vada bene così. Penso sia il prezzo della libertà, della coerenza. E mi trovo qui a sentire che le belle parole, come le belle intenzioni, sono colori sbiaditi che decorano ma non dipingono. Lascio la moleskine sul tavolo, tanto ho dentro abbastanza fogli. Guardo la casa. Sento i coinquilini, chi scopa, chi fa un caffè e chi studia spiando facebook. Un ciao distratto e sospirato e via a dare la caccia alla mia onda. E se non sarà il temporale giusto speriamo che la grandine non faccia troppo male. Semmai tornerò a casa, e come se non si fosse mai andati via, si cercherà di osservare le cose come le si osservava prima, anche se ormai i colori sono tutti scambiati, e nel documento, quello della foto, non sembro più io.

sabato 12 febbraio 2011

CONVERSANDO IN AFRICA

"Bella la maglia! Milan! Schevchenko!"

sorride

"nome?"

"il mio nome è Domingos" detto tutto scandito bene, come se a parlare fosse una macchina da scrivere.

"parli italiano! Complimenti"

"un piccolino, ma capisce. Italiano spagnolo e portoghese."

"dove hai imparato?"

"con volontari. ascolto volontari parlare"

"Bravissimo!" Con gli occhi pieni di stima. "quanti anni hai?"

"dicia seite" dice vergognandosi un po' di tutta la mia ammirazione.

17 anni, mai vissuto fuori da questo villaggio e parla 3 lingue... "E' il tuo cane quello?"

"si!" dice lui orgoglioso.

"come si chiama?"

"Speranza"

"Mi prendi per il culo?"

"cosa?"

"No niente. Perchè non sei a scuola oggi?"

"Oggi ginnastica a scuola. Non tengo soldi per pagare ginnastica." Dice guardando per terra...


E DA QUEL GIORNO IN POI HO GUARDATO NEGLI OCCHI L'AFRICA, COSCENTE CHE Lì, IN GUINEA BISSAU, "SPERANZA" E' SOPRATTUTTO IL CANE DI DOMINGOS"

domenica 2 gennaio 2011

Viagg-IO

C’è un uomo dall’eta indefinibile seduto a pochi metri di me. Sembra adulto ma ha l’aria più vissuta della sua età, le sue mani sono curate, ma trasudano una stanchezza che non pare di questo mondo. Poche ore fa ho dato un bacio sulla guancia sinistra di mia madre e due baci a mio padre. Li ho salutati divorando in un boccone solo il momento, cercando di non girarmi più e di tenere la schiena dritta per sembrare più grande. La freddezza della panchina del terminal penetra i miei pantaloni sottili spostando la mia percezione di qualche centimetro più in alto di dove io sia. Come una mano vicina ad un fuoco ondeggio tra il troppo caldo e la tentazione, sollevando talvolta i piedi e provando a sentirmi già un po’ per aria. Si avvicina il momento del volo, mentre nel momento del viaggio sono già immerso da giorni, da quando ho telefonato a mio zio un istante prima che fosse lui a farlo, e mi sono sentito dire che il mio passaporto era appena arrivato da roma col visto. Da quel momento tutto è diventato vero e piano piano la realtà ha cominciato a sbiadirsi, i miei occhi hanno cominciato a vedere diversamente. Di tutti i miei mille amici non ho tenuto che a salutarne meno di dieci e a tutti gli altri ho lasciato un semplice messaggio in cui dievo che sarei stato via per un generico po’. Il mio viaggio non sarà lungo e non avrei la maturità che ritengo di avere, se gli affidassi speranze di stravolgimento della mia vita attuale. Si va in vacanza per riposare e divertirsi. Io non parto per una vacanza ma non ho obiettivi molto diversi. Nelle mani del mio vicino di posto vedo occhi di tante persone che riconoscenti anticipano il sorriso di centinaia di labbra. Quelle mani sono diverse perché bagnate di qualcosa di diverso, di riconoscenza forse, di umiltà sicuramente. Ma c’è dell’altro e io indagherò. Ma al momento sono troppo preso da me stesso, dalla speranza di poter trovare ciò che cerco. Nel divertimento del mio spirito cercherò di ritrovare la gioia di essere vivo, di poter essere strumento nelle mani dell’artista che ho dentro e che voglio far emergere. Ognuno di noi ha un paesaggio al suo interno disegnato dal nostro artista interiore e inconscio, ma solo in pochi riescono a fondersi con questa parte generatrice e fare della propria vita un’opera d’arte. Ma parto per questo, per far riposare la maschera che il mio ruolo sociale qui in Italia mi impone, per smettere di essere figlio, amico, receptionist e qualsiasi altra cosa, e cercare di togliermi la pelle. Eppure anche se può sembrare un controsenso non ho paura, non ho paura di diventare più fragile ma, anzi, credo che sarò più forte, perché che io lo voglia ammettere o meno so che sarò più a mio agio di quanto io non sappia e possa essere in una realtà in cui a tanti sembro tremendamente inserito. Parto quindi alla ricerca di divertimento e riposo, nel senso di gioia e possibilità di deporre le armi. Sul letto di Padova ho lasciato un mio abito grigio con infilata una camicia e la cravatta che ci avrei abbinato. Nel taschino interno ho messo dei soldi corrispondenti al valore di quell’uomo che da lì è momentaneamente fuggito. Da qui si vede il Mondo anche se è solo Venezia. Mi alzo e cammino piegato e con le mani in tasca fino al lastrone di vetro dal quale si vedono gli aerei. La mia malinconia mi sembra perfino eccessiva ma sto salutando la parte di me che non sarà mai più come prima e non è come togliere i denti del giudizio, ma è più simile ad una perdita di ingenuità, una sorta di deflagrazione. Poso la schiena su una colonna e incrocio lo sguardo di colui che prima sedeva vicino a me. Lui mi guarda e abbozzando un sorriso mi si rivolge con tono dolce: “prima volta che parti per l’africa?” “Si vede vero?” rispondo io, con la sensazione che chi ho davanti di me sappia già tutto. “Ognuno cerca qualcosa di diverso in Africa, una parte di sua Africa, qualcosa da tatuarsi magari al ritorno.” è gentile nel rivolgersi a me, ma cresce in me una stupida voglia di non mostrarmi come un bambino. “Le confesso che io la mia africa la cerco dentro di me, che io il viaggio lo faccio per farmi trovare più che per cercare.” non faccio nemmeno in tempo a sentirmi fiero della mia risposta non banale, che i miei occhi scorrono ai lati delle orbite richiamati da mio zio. “Forza Mattia, hanno aperto le porte, c’è l’imbarco.” Mi giro e ovviamente quell’uomo non c’è più come nel peggiore dei film americani, ma sul suo posto vuoto aleggia il profumo delle ultime parole che il mio cuore gli aveva assegnato da pronunciare. “buona fortuna” aveva detto mio nonno. E ora vado.